(articolo pubblicato sull’Eco di Bergamo, 17 Giugno 2016).
È giusto licenziare nelle amministrazioni pubbliche? La domanda è retorica. Altrettanto retorica finisce per essere la domanda ulteriore: perché ancora nel 2016 si deve intervenire con norme di legge su questioni che dovrebbero discendere, come corollario naturale, dalla nostra Costituzione. In essa si legge, infatti, che i funzionari pubblici devono svolgere il loro ruolo “con disciplina ed onore”. Siamo dentro un perimentro assai ampio: coloro che lavorano al servizio dei cittadini non soltanto devono assicurare il rispetto delle leggi e dei principi generali degli ordinamenti, ma devono, essi per primi, avere una condotta ispirata al bene comune. Su questo aspetto non si finirà mai di insistere abbastanza. I pubblici dipendenti devono (dovrebbero) sentire costantemente l’obbligo morale dell’essere al servizio della collettività. E, oltretutto, di essere pagati dalla collettività. Il furto di soldi, di lealtà, di dignità compiuto dagli impiegati che fingono di lavorare, che si assentano fraudolentemente dal posto di lavoro, che si fanno timbrare il cartellino da altri lavoratori infedeli, si compie ai danni di tutti i cittadini. molti dei quali – e siamo al limite del paradosso – sono gli impiegati onesti, che fanno con impegno e decoro la loro parte. Spesso messi in difficoltà a produrre i risultati richiesti, proprio a causa dei “buchi” di tempo rubato e di mansioni non svolte dagli impiegati disonesti. Alla radice vi è un fenomeno non nuovo: la carenza di “religione dello Stato”, come la chiamava quasi cento anni fa Augusto Monti sulle colonne de “La rivoluzione liberale” di Gobetti. Oggi diremmo, e diciamo, mancanza di senso dello Stato, di rispetto delle istituzioni.
Sacrosante, dunque, le norme varate dal Consiglio dei ministri. Ma rispetto alle quali è ragionevole fare alcune osservazioni. In primo luogo, occorre tenere presente che – a dispetto di quanto sembrano pensare molti riformatori d’occasione – le leggi non bastano. Anzi, spesso, si rivelano una sorta di specchietto per le allodole, buono a convincere l’opinione pubblica che il più è fatto, che il malcostume è stato stroncato. Alle norme deve corrispondere la capacità di renderle concretamente operanti. Nel caso specifico non è inutile rammentare che si tratta di regole presenti nella legislazione italiana da oltre mezzo secolo. Il testo unico delle leggi sugli “impiegati civili dello Stato” (1957) prevedeva espressamente il licenziamento. Così come altre norme che si sono succedute, fino al testo unico del 2001. La verità è che si tratta di norme quasi mai applicate.
E qui si apre una scenario doloroso. Le colpe della mancata applicazione sono da ripartire tra molti soggetti. In primo luogo, come indirettamente riconosce il decreto varato dal Governo, dei dirigenti pubblici, sui quali ricade l’onere di controllare che un dipendente sia effettivamente al suo posto di lavoro se così risulta dal “cartellino”. Non poche responsabilità, nell’andazzo generale, devono essere addebitate alle organizzazioni sindacali, le quali – anche se con qualche distinguo – hanno avuto una colpa specifica: hanno difesso anche l’indifendibile, schierandosi praticamente sempre dalla parte degli impiegati anche nei casi di palese infedeltà e dolo da parte di alcuni di loro. Anche la politica ha avuto, in merito, le sue pecche, trascurando di vigilare sui vertici delle amministrazioni.
Ora siamo di fronte a regole più stringenti che prevedono anche tempi e modalità meno barocche. È l’occasione giusta per voltare pagina nel pubblico impiego. Non vi sono norme – più di quelle approvate dal governo – che vengono sentite come giuste dalla pubblica opinione. Giuste e necessarie. Proprio per tale ragione occorre evitare che si rivelino una delle tante “grida manzoniane” delle quali è costellata la nostra legislazione.
È giusto licenziare nelle amministrazioni pubbliche? La domanda è retorica. Altrettanto retorica finisce per essere la domanda ulteriore: perché ancora nel 2016 si deve intervenire con norme di legge su questioni che dovrebbero discendere, come corollario naturale, dalla nostra Costituzione. In essa si legge, infatti, che i funzionari pubblici devono svolgere il loro ruolo “con disciplina ed onore”. Siamo dentro un perimentro assai ampio: coloro che lavorano al servizio dei cittadini non soltanto devono assicurare il rispetto delle leggi e dei principi generali degli ordinamenti, ma devono, essi per primi, avere una condotta ispirata al bene comune. Su questo aspetto non si finirà mai di insistere abbastanza. I pubblici dipendenti devono (dovrebbero) sentire costantemente l’obbligo morale dell’essere al servizio della collettività. E, oltretutto, di essere pagati dalla collettività. Il furto di soldi, di lealtà, di dignità compiuto dagli impiegati che fingono di lavorare, che si assentano fraudolentemente dal posto di lavoro, che si fanno timbrare il cartellino da altri lavoratori infedeli, si compie ai danni di tutti i cittadini. molti dei quali – e siamo al limite del paradosso – sono gli impiegati onesti, che fanno con impegno e decoro la loro parte. Spesso messi in difficoltà a produrre i risultati richiesti, proprio a causa dei “buchi” di tempo rubato e di mansioni non svolte dagli impiegati disonesti. Alla radice vi è un fenomeno non nuovo: la carenza di “religione dello Stato”, come la chiamava quasi cento anni fa Augusto Monti sulle colonne de “La rivoluzione liberale” di Gobetti. Oggi diremmo, e diciamo, mancanza di senso dello Stato, di rispetto delle istituzioni.
Sacrosante, dunque, le norme varate dal Consiglio dei ministri. Ma rispetto alle quali è ragionevole fare alcune osservazioni. In primo luogo, occorre tenere presente che – a dispetto di quanto sembrano pensare molti riformatori d’occasione – le leggi non bastano. Anzi, spesso, si rivelano una sorta di specchietto per le allodole, buono a convincere l’opinione pubblica che il più è fatto, che il malcostume è stato stroncato. Alle norme deve corrispondere la capacità di renderle concretamente operanti. Nel caso specifico non è inutile rammentare che si tratta di regole presenti nella legislazione italiana da oltre mezzo secolo. Il testo unico delle leggi sugli “impiegati civili dello Stato” (1957) prevedeva espressamente il licenziamento. Così come altre norme che si sono succedute, fino al testo unico del 2001. La verità è che si tratta di norme quasi mai applicate.
E qui si apre una scenario doloroso. Le colpe della mancata applicazione sono da ripartire tra molti soggetti. In primo luogo, come indirettamente riconosce il decreto varato dal Governo, dei dirigenti pubblici, sui quali ricade l’onere di controllare che un dipendente sia effettivamente al suo posto di lavoro se così risulta dal “cartellino”. Non poche responsabilità, nell’andazzo generale, devono essere addebitate alle organizzazioni sindacali, le quali – anche se con qualche distinguo – hanno avuto una colpa specifica: hanno difesso anche l’indifendibile, schierandosi praticamente sempre dalla parte degli impiegati anche nei casi di palese infedeltà e dolo da parte di alcuni di loro. Anche la politica ha avuto, in merito, le sue pecche, trascurando di vigilare sui vertici delle amministrazioni.
Ora siamo di fronte a regole più stringenti che prevedono anche tempi e modalità meno barocche. È l’occasione giusta per voltare pagina nel pubblico impiego. Non vi sono norme – più di quelle approvate dal governo – che vengono sentite come giuste dalla pubblica opinione. Giuste e necessarie. Proprio per tale ragione occorre evitare che si rivelino una delle tante “grida manzoniane” delle quali è costellata la nostra legislazione.
Stefano Sepe
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